L’evoluzione incessante della sua musica, tra Europa ed America, è la dimostrazione che il jazz, più di ogni altra musica, abolisce confini e accomuna linguaggi.
Siamo a Sacrofano, a circa 15 km dalla capitale, in una giornata soleggiata di inizio marzo. Incontriamo Maurizio Giammarco nella sua deliziosa casa con giardino. Il sassofonista-compositore è una delle figure più eminenti del jazz contemporaneo in Italia e nel mondo: ‘Neocene’ gli ha rivolto alcune domande sul suo lavoro e sul panorama musicale e artistico contemporaneo.
Il jazz nasce oltreoceano e si propaga in Europa e nel mondo. Cosa distingue oggi un musicista jazz italiano da uno nato e cresciuto in America?
La bravura. Non ci sono differenze sostanziali. Il jazz è un fenomeno oramai internazionale ed il motivo è molto semplice: ci sono i media che aboliscono i confini. Come dire, avendo io 70 anni, come italiano posso saperne molto di più di jazz di un musicista americano che ne ha 30. Non è una questione di pedigree.
C’è una dichiarazione molto famosa di Henry “Red” Allen, famoso trombettista di jazz classico, che ha suonato con l’orchestra di Fletcher Henderson e che, come tutti i musicisti degli anni ‘30, era influenzato da Louis Armstrong, il caposcuola assoluto del jazz: “Ho imparato a suonare ed imitare Louis Armstrong ascoltando i suoi dischi, eppure lui abitava a 100 metri da casa mia e io non ho mai avuto il coraggio di andarlo a disturbare”. Tra l’altro, ci sono molti musicisti americani che stanno venendo in Europa, perché anche loro amano guardare altrove.
Oggi esiste anche un’offerta formativa di jazz presso il conservatorio di Santa Cecilia. Il jazz non rischia così di perdere la sua essenza di musica popolare, che nasce dal disagio e dai canti religiosi, suonata nei locali, nelle strade e perfino nei bordelli; che ha a che fare tutto questo con le aule solenni e un po’ asettiche di un’accademia?
La battaglia di fare entrare il jazz nel conservatorio è stata prima di tutto una battaglia di decoro nei riguardi di una musica importante, che paradossalmente era rimasta fuori dalle istituzioni fino agli anni ‘90. Il secondo motivo è stato un motivo molto pragmatico e cioè dare un po’ di lavoro a dei musicisti italiani. Rispetto al fatto se il jazz si può insegnare o no, esistono diverse filosofie, a seconda di come si vede la questione. Molte cose del jazz a mio avviso possono essere insegnate, altre forse no.
Comunque la musica dovrebbe essere materia di studio sin dalle scuole primarie.
Il Music Inn di Pepito Pignatelli è stato, oltre che un crocevia di musicisti d’oltreoceano, anche un’originalissima scuola di formazione spontanea e indimenticabile per molti della tua generazione. Quali ricordi ti vengono in mente?
C’è da dire che il jazz lo fanno anche i posti che, come in questo caso, sono a volte gestiti da eroi, che si assumono l’ingrato compito di mettere in piedi delle strutture, anche private, come sono i jazz club, che hanno vita molto dura dal punto di vista economico ed anche esistenziale. Del Music Inn ho molti ricordi, perché quel periodo ha coinciso con la mia maturità, con i miei 20-30 anni, il periodo più intenso della vita di una persona. Non esisteva solo il Music Inn, c’erano anche il Murales, il Mississippi, il Folkstudio, però il Music Inn era un luogo molto singolare, soprattutto per i personaggi che lo gestivano: Pepito Pignatelli e sua moglie Maria Giulia Gallarati, detta Picchi, due personaggi da film. Il documentario di Carola De Scipio, Music Inn, arriva il jazz a Roma l’ho trovato veramente bello: ha fatto secondo me un lavoro stupendo. È stata brava, perché ha documentato qualcosa che non poteva essere dimenticato. Anche per il libro di Marco Molendini, Pepito, il principe del jazz, darei lo stesso giudizio. Questi lavori sono stati molto importanti per ricordare un pezzo di storia del jazz in Italia e di vita culturale a Roma.

Veniamo alla tua formazione. Quali sono stati gli inizi?
La mia passione per la musica è incominciata direttamente col jazz. Su questo ho una storia molto particolare di cui sono orgoglioso, molto diversa da quella di molti miei coetanei, che si sono prima appassionati al rock, poi sono passati al rock progressivo e poi si sono avvicinati al jazz. Io ho avuto invece la fortuna di innamorarmi direttamente del jazz perché in casa mia, che non era una casa di musicisti, c’erano però una bella compilation di Duke Ellington e Rapsody in blue di Gershwin, nella versione di Paul Whiteman; io a 10 anni conoscevo a memoria il disco di Duke Ellington, poi ho cominciato a comprare dischi; mi ricordo che fra i primi che ho acquistato c’era una compilation di jazz tradizionale e un disco di Louis Armstrong con le incisioni del ‘33: ho avuto un battesimo fantastico…
E quand’è che sei andato a comprare un sassofono?
Questo è avvenuto verso i 15 anni. In realtà avrei voluto suonare la tromba, ma è stata mia madre a dirottarmi sul sassofono. Comunque la mia passione per la musica, di cui non mi fregava assolutamente nulla fino ai 10 anni, è incominciata direttamente col jazz ed ho iniziato a suonare il sassofono. Prima c’era stato un breve periodo con il banjo, perché a me piaceva il jazz tradizionale.
Come tutti i miei amici, negli anni ‘60 mi sono avvicinato anche al rock: ricordo che il musicista che mi attirò dentro a questo mondo fu Jimi Hendrix, che era intriso di blues e chiaramente il blues era l’aspetto fondamentale che poi mi ha cambiato la vita.
Con i Beatles ti sei confrontato?
I Beatles sì, ho cominciato a sentirli appena usciti, quando sentivo già il jazz, per cui all’inizio li avevo un po’ snobbati, ma poi mi ci sono appassionato. Quindi è una musica che ho conosciuto piuttosto a fondo, imparando a stimarli tantissimo: erano i tempi in cui uscì Sergent Pepper. Naturalmente ascoltavo anche musica classica.
Tra le svariate formazioni che hai allestito, certamente Lingomania, quintetto pluripremiato degli anni ‘80, che vide diversi cambiamenti di organico, ha rappresentato una svolta rispetto al panorama contemporaneo. Cosa ti ha dato questa esperienza?
Lingomania cercava dichiaratamente di coniugare due mondi diversi: il jazz storico e il rock. L’idea stessa di costituire un gruppo con un nome, è un tipo di progettualità che deriva dal rock. Quindi era una musica “crossover”, che però cercava una sua identità attraverso composizioni mie, di Umberto Fiorentino ed Enzo Pietropaoli, che scrivevano sulla mia stessa lunghezza d’onda. In più c’era il lavoro di gruppo che, mettendo insieme la bravura dei singoli con il lavoro collettivo, ha fatto la differenza nel periodo in cui noi siamo emersi, gli anni ‘80: Lingomania ha attraversato un periodo che va dal ‘83 al ‘89. Incidemmo tre dischi, avremmo potuto farne di più, ma ritengo che il lavoro fatto abbia lasciato un segno nella storia musicale di quegli anni; questo riempie di gioia me e tutti noi. C’era ovviamente, nell’epoca in cui noi siamo venuti fuori, un’attenzione diversa a livello sociale nei confronti di un certo tipo di musica, che si identificava ancora con una “controcultura” giovanile. Questo ha favorito noi come il Perigeo prima di noi negli anni ‘70. Questa realtà oggi non è più presente. Noi ce l’abbiamo fatta ad emergere partendo dal basso, semplicemente suonando. Sicuramente Lingomania è stato il gruppo più importante della mia carriera, se non altro al livello di notorietà.
Tra le moltissime collaborazioni, c’è stata quella con Chet Baker: un’altra esperienza, sia musicale che umana, credo indimenticabile. Cosa ti ha dato e cosa avevate in comune sul piano espressivo? (Gli ricordo di un concerto a Parigi del 1980, al jazz club “Le Dreher”)
Beh, con Chet è stata l’occasione per confrontare la mia conoscenza della tradizione con un musicista che ne era un esponente di primo piano: suonare gli standard, ma con chi li suonava meglio di tanti altri. Sì, in quell’anno ho fatto una quarantina di concerti con Chet e due settimane in quel locale, poi la tournée in Germania, poi l’esperienza è terminata, perché lavorare con Chet Baker andando in giro in Europa era abbastanza complicato. Prima però avevo suonato con Lester Bowie, il trombettista dell’Art Ensemble of Chicago, che partiva da presupposti completamente differenti. Quindi mi è sempre piaciuto avere esperienze molto diverse. Avevo studiato nel ‘75 al Creative Music Studio di Karl Berger (Woodstock), una scuola a cui anche Don Cherry ha dato un grande contributo. In quegli anni ho fatto un po’ di tutto, ho partecipato anche a gruppi rock, o comunque folk progressivo, come il Canzoniere del Lazio; sono stati anni molto produttivi, in cui si passava da un ambiente musicale all’altro.
Tu hai pubblicato oltre 100 dischi, se non sbaglio, tra i quali è difficile orientarsi. Ne consiglieresti due o tre assolutamente da non perdere?
Domanda un po’ complicata, perché al primo impatto ti dovrei rispondere l’ultimo, Past present, con il gruppo M.Giammarco Rumours, senza pianoforte e con due fiati [con Fulvio Sigurtà – trumpet, Riccardo Del Fra – double bass, Ferenc Nemeth – drums, ndr] ed anche il penultimo, Only Human, con il quintetto Halfplugged Syncotribe. Gli anni passano, ma la mia idea di musica diventa sempre più pregnante, più nitida. È difficile per me scegliere, perché sono affezionato a molti lavori e allo stesso tempo sono sempre alquanto autocritico.
Sono molto affezionato a Saurian Lexicon [Dario Lapenna – chitarra, Franco D’Andrea – pianoforte, Paolino Dalla Porta – basso, Manhu Roche – batteria, ndr], un disco del ‘92; se devo scegliere un disco di Lingomania, citerei sicuramente Grr…Expanders, e poi mi viene in mente anche il disco 7+8 con Phil Markowitz al piano, Dario Deidda al basso elettrico e Fabrizio Sferra alla batteria.
Cosa può significare la musica nella nostra vita personale e che influenza può avere nel contesto sociale e politico globale? Alludo al potere che ha la musica, in particolare il jazz, nell’escludere qualsiasi barriera (etnica, ideologica, geo-politica, religiosa…), tra le persone e tra i popoli. La musica di origine afro-americana, ma in generale tutta la musica, si può considerare una sorta di esperanto?
Sono completamente d’accordo con questa visione della musica e devo dire che questo è sicuramente uno dei motivi per cui sono diventato musicista. La musica è un linguaggio universale, quindi io sottoscrivo in pieno questa visione. La musica è stata un grande collante sociale, tra la fine degli anni ‘60 e i ‘70. Credo che sia stato un collante di tale importanza, da far pensare che ci sia stato anche un progetto per disattivarne la funzione rinnovatrice e destabilizzante.
Sicuramente però la musica contribuì ad un cambio dei costumi in quei due decenni cruciali, dai quali non si è più tornati indietro. Poi c’è stato il mercato della musica che ha snaturato tutto. Le case discografiche hanno creato disastri, perché hanno incominciato a gestire tutto in un’ottica esclusivamente manageriale, dimenticando che la musica è innanzitutto espressione artistica e va trattata in altro modo. In quegli anni c’è stato anche l’avvento delle radio private. Io, nella mia ingenuità, pensavo che fossero destinate ad aprire la strada alla buona musica ed al jazz, ma mi sbagliavo: le radio private sono state uno strumento di distrazione di massa totale, hanno annientato i neuroni musicali degli italiani. Sono inascoltabili.
Ci congediamo dal nostro interlocutore, con cui avremmo conversato ancora a lungo. Ci resta la convinzione che, se il jazz è ancora una musica progressiva e capace di esprimere l’energia creativa delle origini, è grazie a musicisti di grande spessore come Maurizio Giammarco.
Averlo incontrato, oltre che ascoltato a lungo nei dischi e dal vivo, è una vera soddisfazione e una conferma che il jazz, come il blues, può dare ancora molto. Il jazz è respiro di libertà.