“Dieci cose che ho imparato” di Piero Angela (prima parte)

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Piero Angela
Piero Angela

Scomparso nell’agosto del 2022 dopo una lunghissima carriera al servizio dell’informazione e della formazione, Piero Angela condivide in questo libro edito da Mondadori la sua visione dell’Italia e del rapporto del nostro paese con la scienza e la tecnologia. Un’opera articolata e approfondita della quale è assolutamente consigliata la lettura.

“Mi chiedo spesso come mai un paese come l’Italia, pieno di intelligenze e creatività, con una storia straordinaria e unica, che ha marcato profondamente per secoli il cammino della civiltà, oggi sia così in difficoltà”. Inizia con questa riflessione, amara ma essenziale da porsi, l’ultimo libro di Piero Angela, forse il più appassionato e coinvolgente divulgatore della cultura scientifica in Italia.

La risposta arriva poche righe dopo: “[…] personalmente credo che vi sia soprattutto un gravissimo ritardo culturale a entrare nella modernità; cioè un deficit nella capacità di comprendere (e di investire in) quelli che sono oggi i veri acceleratori dello sviluppo: educazione, conoscenza, competenza, flessibilità, innovazione, capacità progettuale, eccetera”.

Il ruolo della politica

Il tema è ampio, e Angela lo affronta, in modo forse inatteso, partendo dal ruolo della politica e del suo rapporto con la produttività e le risorse. L’attività principale della politica è amministrare, gestire e distribuire una ricchezza che non produce direttamente ma che può contribuire a moltiplicare (o a decurtare); il suo compito dovrebbe essere quello di creare un sistema virtuoso nel quale la produttività è quanto più possibile ottimizzata e la ripartizione dei suoi proventi viene effettuata in modo equo e strategico.

Questo in teoria; nella pratica la situazione è molto diversa e per descriverla Angela utilizza il termine ‘brevimiranza’. Brevimiranza è la tendenza sistematica a preferire l’uovo oggi anziché la gallina domani, la tendenza che spinge i politici a fare promesse tanto clamorose quanto irrealizzabili: tagli delle tasse, abbassamenti dell’età pensionabile, condoni fiscali e bonus di ogni tipo. Brevimiranza è anche cercare la gratificazione immediata una volta saliti al governo: “ciò che conta”, scrive Angela, “è essere vincenti subito nella distribuzione della ricchezza prodotta, con una lotta serrata per aumentare la propria fetta”. È proprio questo atteggiamento miope che fa essere il nostro paese in cima alle classifiche dell’evasione fiscale e tra gli ultimi per investimenti nella ricerca, nell’educazione, nei centri di eccellenza, nell’attrattività per gli investitori e in tanto altro.

Scienza e tecnologia: cultura con la “c” minuscola?

Ma chi, o cosa, produce la ricchezza che la politica fatica a mettere a frutto con un’oculata pianificazione? I grandi motori della crescita sono principalmente tre: scienza, tecnologia ed educazione. Angela ricorda come, nell’arco di poche generazioni, questi siano stati i fattori trainanti che hanno rivoluzionato l’industria, l’agricoltura e i servizi. Basti pensare che ai tempi dell’Unità d’Italia, intorno al 1860, oltre il 67% dei lavoratori era impiegato nell’agricoltura, ma nonostante questo, il 43% della popolazione viveva in povertà assoluta.

Grazie alla tecnologia, che ha fornito le macchine per gestire l’intero processo agricolo, e alla scienza che ha provveduto alle conoscenze per produrre queste macchine e per alimentarle, oggi solo il 3,6% dei lavoratori è impegnato nel settore, favorendo un’esplosione dei servizi, che sono passati dal 15,1% a circa il 70%: sono aumentati enormemente gli ingegneri, i medici, gli avvocati e una miriade di altre professioni che contribuiscono a rendere avanzato un paese e a migliorare la qualità della vita dei suoi cittadini.

I progressi della scienza hanno permesso di raddoppiare la speranza di vita, di abbattere pressoché del tutto la mortalità infantile, di alfabetizzare la quasi totalità delle persone, di inventare nuove forme di comunicazione, di sviluppare computer e macchine intelligenti, di esplorare l’Universo, di studiare l’organo più complesso che conosciamo, il cervello umano, e così via.

Tuttavia, nonostante questi e moltissimi altri benefici, è ancora diffusa la tendenza a considerare la scienza e la tecnologia come materie riservate agli specialisti, un requisito che non debba far parte del bagaglio culturale “di base” di una persona. Una cultura con la “c” minuscola, mentre quella con la “C” maiuscola, la cultura per eccellenza, resta quella umanistica e artistica, letteraria e filosofica, storica e giuridica. Siamo ancora prigionieri, sottolinea Angela, del paradigma delle “due culture”: quella umanistica da una parte e quella scientifica dall’altra, con molti intellettuali disinteressati e insensibili ai concetti e ai problemi della scienza.

Eppure, ricorda Angela, “è proprio la scienza che sta cominciando oggi a rispondere davvero alle domande che i filosofi si sono posti da secoli”. La rivoluzione culturale auspicata da Angela, ossia porre le materie umanistiche e scientifiche fianco a fianco favorendone la pari diffusione, non è avvenuta, per lo meno non ancora. La scienza resta un affare per pochi, per chi ha una “mente scientifica”, producendo una mancata crescita per il paese perché, come comprovato dai fatti, oggi è proprio la scienza a essere il principale motore di sviluppo.

L’Italia ha dimostrato di poter competere a livello internazionale con le sue scoperte e invenzioni. Angela cita alcuni esempi tra Otto e Novecento, come Galileo Ferraris che creò il motore elettrico a corrente alternata, ancora oggi usato nelle applicazioni industriali; Eugenio Barsanti e Felice Matteucci, inventori del primo motore a combustione interna; Enrico Fermi con le sue scoperte sull’energia nucleare; la Olivetti e i primi prototipi di computer; e perfino nel settore spaziale: dopo Urss e Usa, l’Italia è stato il terzo paese a lanciare un satellite in orbita. I successi italiani sono davvero tanti, troppi per essere ricordati.

Un processo che non viene alimentato si arresta

Negli ultimi decenni, questa spinta creativa e innovatrice sembra essersi però spenta, sia per il fatto che continuiamo a non riconoscere l’importanza fondamentale del ruolo della scienza e della tecnologia nello sviluppo, sia per la progressiva scomparsa delle aziende avanzate che erano veri e propri vivai d’innovazione.

Un paese come l’Italia, ricchissimo di arte e cultura, ma piuttosto povero di risorse naturali e fonti energetiche, per competere sul terreno dell’efficienza produttiva avrebbe dovuto investire massicciamente nell’innovazione e nell’educazione, nella capacità di fare meglio le cose, di farle in modi nuovi e originali; i dati riportano invece un quadro scoraggiante, a partire dalla crescita annua della produttività, che in Italia si attesta sul +0,3-0,4%, mentre in Europa viaggia su una media dell’1,5%.

Strettamente legati a questo indicatore, sono i risultati dell’indagine sul fare impresa condotta dalla Banca mondiale. l’Italia si colloca al 58° posto nella classifica generale, non solo dietro a tutti i paesi europei, ma anche a paesi come il Rwanda. Le cose vanno addirittura peggio osservando singolarmente alcuni indicatori come i permessi di costruzione (104° posto), il rispetto dei contratti (111° posto), l’accesso al credito (112° posto) e le tasse (118° posto).

Le cause della bassa crescita sono note: la maggior parte delle imprese italiane opera per lo più in settori a medio-basso contenuto tecnologico e quindi investe poco nell’innovazione (se investe), una Pubblica Amministrazione inefficiente, una giustizia lentissima, una corruzione diffusa, un’evasione fiscale altissima, una scarsa percentuale di laureati (e all’interno di questo valore, una bassa percentuale di laureati nelle materie tecnico-scientifiche), un tasso di digitalizzazione inadeguato (siamo quart’ultimi nell’UE), un modesto tasso di investimento in ricerca e sviluppo (l’1,3% del PIL contro una media del 2% dell’Europa).

Come uscire dall’impasse? Innanzitutto con un cambiamento culturale, auspica Angela. Comprendere da una parte che oggi (ma questo è vero da qualche decennio) la scienza e la tecnologia sono indispensabili per assicurare lo sviluppo del paese e il benessere di tutti i cittadini, e dall’altra che la cultura è unica, che le materie umanistiche e quelle scientifiche possono e debbono integrarsi e valorizzarsi a vicenda.

“Per possedere una cultura scientifica”, sottolinea Angela, “non è necessario conseguire una laurea in fisica, biologia o ingegneria. […] basta acquisire familiarità con le regole di base, capire la loro grammatica, informarsi, leggere qualche libro giusto e comprendere le regole essenziali. Capire, ad esempio, l’importanza di investire nella scienza e nella tecnologia, […] di acquisire, in sostanza, una mentalità e una preparazione in linea con i tempi”.

La scuola: un passaggio fondamentale

Partiamo dai dati, che non sono buoni. Secondo il test sul rendimento scolastico realizzato dall’OCSE nel 2018, l’Italia occupa il 32° posto nella comprensione dei testi, il 31° nella matematica e il 40° nelle scienze, con valori sotto la media. Torniamo al concetto di brevimiranza: nonostante sia assodato che finanziare l’educazione, che è alla base della ricerca e dell’innovazione, sia l’investimento che rende maggiormente in prospettiva, si preferisce dare la precedenza ad altre urgenze del momento.

E così rimaniamo indietro, non solo rispetto agli altri paesi, ma anche internamente: ad esempio, al Concorso nazionale per magistrati del 2022, il 95% dei candidati, la quasi totalità, è stato considerato non idoneo sulla base della prova di ammissione. Come ricorda Angela, si trattava di candidati laureati in giurisprudenza, non di persone con la terza media! Non si tratta di un caso isolato: già nel 2008 si verificò una situazione simile, sempre in un concorso per magistrati, con l’assegnazione di soltanto la metà dei posti disponibili.

A pesare non è solo la condizione della scuola italiana con le polemiche che la accompagnano da decenni (le aule fatiscenti, le attrezzature soprattutto tecnologiche inadeguate, i tantissimi insegnanti precari e così via), ma anche l’atteggiamento delle famiglie e l’importanza che esse attribuiscono allo studio: parliamo degli stimoli dati ai bambini, del valore assegnato all’educazione, del fatto di ritenere o meno l’educazione il perno centrale nella crescita.

Molte ricerche mostrano come la stimolazione delle potenzialità dei bambini in fatto di curiosità, esplorazione e ragionamento sia fondamentale per sviluppare le competenze necessarie per affrontare con successo gli studi e la vita professionale. L’Italia ha avuto un personaggio straordinario, Maria Montessori, che aveva compreso l’importanza di questi fattori e il cui modello di scuola si è diffuso con eccellenti risultati in tantissimi paesi del mondo. Angela ricorda come molti degli innovatori dei nostri tempi, ad esempio Jeff Bezos di Amazon, Sergey Brin e Larry Page di Google, Jimmy Wales di Wikipedia e altri, abbiano frequentato scuole montessoriane.

Naturalmente è importante tutto il percorso scolastico, e in particolare quello universitario. Barack Obama ha dichiarato: “L’America è un grande paese non perché ha un grande esercito, ma perché ha grandi università”. E gli Usa sono una nazione brava non solo a formare competenze in casa propria, ma anche ad attrarne da fuori per mettere a frutto i fondi destinati alla ricerca, in un ciclo virtuoso che si auto-alimenta.

I ricercatori italiani, nonostante le difficoltà del nostro sistema educativo, sono ai primi posti tra i beneficiari dei fondi sia negli Usa che in Europa: il problema è che molto spesso lavorano in istituti di altri paesi, col paradosso ormai ben noto che mentre è l’Italia a formare le conoscenze e le competenze di questi brillanti scienziati, saranno altre nazioni a godere dei risultati del loro lavoro in termini di innovazione e sviluppo.

Cosa può fare la cultura?

La cultura può fare moltissimo, se stimola una consapevolezza generale su questi problemi. Angela torna a ripetere la necessità di “un pensiero moderno che sappia fertilizzare trasversalmente la politica, l’economia, l’informazione, la televisione […]. La cultura potrebbe essere un forte acceleratore, proprio per la sua capacità di diffondere consapevolezza, elaborando idee nuove”, influenzando così la politica che potrebbe a sua volta attivare altri acceleratori, gestendo e distribuendo le risorse non sulla base della brevimiranza, ma (finalmente) della lungimiranza.

(Fine della prima parte).

Qui trovate la seconda parte.