Tra oggi, 12 settembre, e lunedì prossimo si apre l’anno scolastico 2022/2023 (con l’eccezione di Bolzano, dove la campanella ha suonato il 5), non senza la lunga serie di problemi che affligge il mondo dell’istruzione. Problemi che per il loro radicamento sembrano ormai la normalità della scuola italiana.
“Allo stato attuale noi ripartiamo con un anno scolastico a cui non mancano i docenti” ha dichiarato il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi. “Stiamo facendo la verifica con tutti gli uffici scolastici regionali, noi abbiamo anticipato moltissimo tutte le procedure, sia di chiamate in ruolo che quelli aggiuntivi”. Le parole del ministro sono state tuttavia contestate dalla grandissima maggioranza delle sigle sindacali. Secondo la Cisl “su 94mila posti autorizzati ne risultano coperti a malapena il 40%, dunque ci ritroveremo anche quest’anno a dover ricorrere a migliaia e migliaia di supplenze, che sono un dato ormai storico”.
Sono piovute critiche anche sul metodo di assegnazione delle supplenze, affidato per il secondo anno consecutivo a un algoritmo che, secondo molti rappresentanti del settore, è stato concepito con un grave errore strutturale. Il problema sarebbe il meccanismo di formazione della graduatoria e gestione delle precedenze: il controllo dei titoli verrebbe fatto all’atto dell’assunzione e non prima di assegnare le sedi, come in passato. In questo modo, potrebbe verificarsi la situazione in cui un candidato che dichiara titoli e servizi realmente posseduti viene sopravanzato nel punteggio da chi “gonfia” un po’ il curriculum, rischiando così di non vedersi assegnata la sede preferita proprio a causa della graduatoria falsata.
Il candidato “furbetto”, invece, rischia il (giusto) licenziamento, lasciando però a quel punto una supplenza scoperta e alimentando il “caos cattedre” e la “supplentite”. In alcune località, sembrerebbe sempre a causa di malfunzionamenti dell’algoritmo, le classi saranno senza docente perché le procedure si sono completamente interrotte. A Prato sono state bloccate le assegnazioni delle cattedre annuali, a Roma in alcuni istituti mancano dai 15 ai 20 professori (con molte scuole che stanno introducendo l’orario ridotto), a Napoli viene stimato che mancheranno almeno 2mila insegnanti complessivi.
Pessime notizie anche sul fronte degli alunni con disabilità, che in Italia sono più di 290mila. Il ministero non ha ancora rilasciato il numero dei docenti specializzati che saranno presenti in aula, ma Ernesto Ciriaci, presidente del Movimento insegnanti di sostegno specializzati, ha dichiarato che “in questi giorni, in diverse parti d’Italia, devono essere convocati migliaia di supplenti sul sostegno da graduatorie incrociate. Parliamo di circa 7mila cattedre in deroga, ossia a supplenza, che ovviamente non garantiscono la tanto desiderata continuità didattica”. Rincara la dose il Coordinamento degli insegnanti specializzati, che parla di “un’Italia a doppia velocità, in cui gli alunni restano senza supporto. Il ministero ogni anno assume in deroga oltre il 60% del personale necessario, dimenticando sistematicamente il diritto dei disabili all’instaurare un percorso di formazione unitario e strutturato, in cui il rapporto diadico tra discente e docente è il cardine fondamentale di ogni successo”.
A funestare ulteriormente il già martoriato mondo dell’istruzione è un altro fattore, che ci pone al primo posto in Europa (ma questa è una classifica nella quale è auspicabile essere ultimi): l’abbandono scolastico. Secondo il rapporto di Save the Children diffuso pochi giorni fa, il 12,7% degli studenti italiani non arriva al diploma perché abbandona precocemente gli studi, e il 23,1% dei giovani tra i 15 e i 29 anni si trova fuori da ogni percorso di istruzione, formazione o lavoro: sono i NEETs (Not in Education, Employment or Training), la percentuale più alta nell’Unione europea, il doppio di Francia e Germania.
Tra coloro che invece al diploma ci arrivano, una percentuale rilevante, quasi il 10%, mostra di non possedere le competenze minime necessarie per entrare nel mondo del lavoro o dell’università. Si tratta della cosiddetta ‘dispersione implicita’, dovuta all’impoverimento educativo e alla povertà materiale. Analizzando i dati, infatti, il rapporto di Save the Children evidenzia una correlazione tra livello di apprendimento e alcuni indicatori strutturali: nelle province dove il tasso di dispersione implicita è più basso, le scuole dispongono delle risorse per assicurare il tempo pieno (frequentato dal 31,5% degli studenti contro il 24,9% nelle province ad alta dispersione), la mensa (il 25,9% contro il 18,8%), la palestra (il 42,4% contro il 29%), nonché il rispetto delle norme previste dalla certificazione di agibilità (il 47,9% contro il 25,3%).
Insomma, un’offerta adeguata di spazi e di tempi può contribuire efficacemente alla riduzione delle disuguaglianze educative territoriali. La direttrice dei Programmi Italia-Europa di Save the Children Raffaella Milano auspica un piano straordinario di investimenti da parte del nuovo governo, piano da realizzarsi primariamente nelle aree più deprivate dal punto di vista educativo: Sicilia (che ha un abbandono scolastico pari al 21,1%, con punte che arrivano al 25% come a Catania), Puglia (17,6%), Campania (16,4%) e Calabria (14%), tutte regioni sopra la media nazionale del 12,7%. Sarebbe necessario, secondo Save the Children, uno stanziamento del 5% del Pil (in modo da mettersi in pari con media europea), per un ammontare di 93 miliardi di euro, contro i circa 71 miliardi assegnati nel 2020.
Chiudiamo con altri numeri, e purtroppo anche questi non lasciano presagire molte speranze. Quest’anno entreranno in classe circa 7.287.000 studenti, mentre l’anno scorso erano circa 7.407.000 e quello precedente circa 7.507.000. In due anni abbiamo dunque perso 220mila alunni (pari a 3mila classi); come denuncia l’Anief, l’Associazione professionale e sindacale che rappresenta e tutela le professionalità dell’Istruzione, gli studenti persi in 15 anni sono stati circa 800mila. Il calo demografico che oggi spopola la scuola, domani si rifletterà sul sistema produttivo (come abbiamo sottolineato in questo articolo, secondo alcune stime nel 2042 potrebbero esserci 6,8 milioni di lavoratori in meno) e previdenziale, con conseguenze potenzialmente catastrofiche sotto il profilo sociale ed economico.