“Qualcosa non va”

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Draghi dimissionario
Draghi dimissionario

Queste le parole di Mario Draghi prima del suo discorso in Senato, colpa del microfono che fischiava. Poi le cose, effettivamente, non sono andate.

Quella di ieri, mercoledì 20 luglio, è stata definita “una delle giornate più surreali nella storia della politica italiana”, al termine della quale, pur avendo incassato la fiducia, il governo Draghi è di fatto giunto alle battute finali, avendo perso quell’ampia maggioranza che sin qui l’aveva sostenuto. In aggiunta, fatto politico piuttosto grave, nessuna delle parti protagoniste della crisi – il Movimento 5 Stelle, la Lega e Forza Italia – ha voluto assumersene la responsabilità, neanche dal punto di vista formale: i senatori pentastellati si sono infatti dichiarati “presenti non votanti”, mentre quelli dei due partiti di centrodestra si sono astenuti. Ma la sostanza non cambia e l’esperienza di governo di Mario Draghi può dirsi conclusa.

La crisi è stata innescata nelle settimane scorse da Giuseppe Conte e dal M5S con quello che è subito apparso un pretesto, la realizzazione di un termovalorizzatore a Roma (ricordiamo come il Movimento abbia guidato la capitale per cinque anni con Virginia Raggi senza trovare alcuna soluzione al problema dei rifiuti). Le vere motivazioni risiedono secondo molti commentatori nei costanti cali nei sondaggi e nell’attribuzione di questa diaspora di consensi al fatto di stare al governo e di votare provvedimenti non in linea con il proprio programma, una situazione molto simile a quella della Lega. Sarebbe su queste basi che Conte avrebbe dato il via alla crisi, senza però sapere come gestirla; su alcuni organi di stampa, i 5 Stelle sono stati addirittura definiti “utili idioti”, per il fatto di non rendersi conto che questa iniziativa, che effettivamente è scoppiata loro tra le mani, avrebbe favorito le strategie di qualcun altro, in primis Matteo Salvini.

Se dunque la crisi è stata avviata dal Movimento, è stata la Lega a cavalcarla per cercare di ottenere le elezioni. Da tempo insofferente rispetto ad alcuni provvedimenti portati avanti dal governo (il catasto, le concessioni balneari, le licenze dei taxi solo per citarne alcuni), il partito del Carroccio ha colto la palla al balzo e ha proposto, per la prosecuzione dell’esecutivo, una condizione che ben difficilmente sarebbe stata accettata da Draghi: escludere dal governo i 5 Stelle. A questo punto, in Senato, dopo l’intervento del leghista Romeo che poneva questa condizione, è apparso abbastanza chiaro come sarebbe finita la vicenda. Un altro colpo al governo è arrivato da Forza Italia: sembrerebbe infatti che Draghi abbia telefonato a Silvio Berlusconi per cercare un chiarimento, una mediazione, ma che l’ex Cavaliere si sia fatto negare, cancellando così di colpo la narrativa che vedeva Forza Italia come un partito responsabile, moderato, convinto sostenitore dell’ex governatore della Banca d’Italia e della BCE.

Draghi, da parte sua, ha fatto ben poco per evitare che le cose precipitassero. Il suo discorso al Senato è stato molto duro, diretto, senza troppa diplomazia. Dopo aver ricordato le circostanze della nascita del suo governo (basato appunto sull’unità nazionale, senza identificarsi con una parte politica ma cercando l’appoggio più ampio possibile), e dopo aver rivendicato tutti i risultati raggiunti (riguardo all’economia, alle riforme del PNRR, alla pandemia, al sostegno all’Ucraina, etc.), ha elencato una a una tutte le questioni concrete alla base dei malumori della sua maggioranza, in particolare Lega e M5S, che, secondo Draghi, dall’iniziale volontà di coesione e sostegno sarebbero passati a un sempre crescente desiderio di “distinguo e divisione”. Draghi ha quindi chiesto un mandato pieno alla prosecuzione dell’attività dell’esecutivo; ma anche questa era una condizione che difficilmente Salvini e Conte avrebbero potuto accettare.

Impossibile dire se una maggiore apertura di Draghi alle richieste dei partiti e una minore attenzione di questi ultimi alle proprie problematiche interne avrebbero potuto portare a un esito diverso. Ciò che invece appare piuttosto certo, è che sarà il paese a rimetterci. Quasi sicuramente salteranno il nuovo decreto “Aiuti” e il taglio del cuneo fiscale, saranno concretamente a rischio i fondi del PNRR che dipendono dalla realizzazione con tempistiche precise delle riforme promesse all’Europa, lo spread sui titoli di Stato si è già impennato e potrebbe essere a rischio la legge stessa di bilancio, che deve essere approvata entro fine anno. Infatti, considerati i tempi tecnici delle elezioni e dell’insediamento, il nuovo Governo potrebbe entrare in carica non prima di inizio/metà novembre. Questo in presenza di una maggioranza chiara: se si dovesse verificare uno scenario come quello del 2018 (4 marzo le elezioni, 1° giugno l’entrata in carica del governo Conte I), potrebbero volerci anche mesi prima di avere un nuovo esecutivo.