Quesiti complessi, lontani dalle priorità dei cittadini e soprattutto abbandonati da chi li aveva proposti: i referendum di domenica 12 giugno si sono rivelati la cronaca di un fallimento annunciato.
I cinque referendum riguardanti l’abrogazione di alcune norme sul funzionamento del sistema giudiziario italiano, promossi dal “Comitato Giustizia Giusta” costituito dalla Lega e dal Partito Radicale, si sono rivelati un pasticcio. E poco importa se abbiano vinto i sì o i no (per la cronaca hanno prevalso i sì con percentuali variabili dal 54 al 74%): avendo votato poco più del 20% degli aventi diritto, il quorum del 50%+1 è rimasto ben lontano. Si tratta del risultato peggiore in termini di affluenza mai registrato per questo tipo di consultazione, e molti analisti ritengono che se i referendum non fossero stati accorpati alle elezioni amministrative che si sono svolte in quasi 1000 comuni tra cui 26 comuni di capoluogo, 4 di regione e 22 di provincia, i votanti sarebbero stati ancora di meno. Infatti è netta la differenza dove si votava anche per il sindaco rispetto a dove le urne erano aperte solo per i referendum. Un altro dato da segnalare è che molti elettori hanno scelto di votare solo per le amministrative, rifiutando le schede dei referendum.
Le cause di questo fallimento sarebbero riconducibili a vari fattori, primo tra i quali la limitata importanza attribuita all’appuntamento referendario. Con le sentenze del 2 marzo 2022, anticipate dal comunicato stampa del 15 febbraio, la Corte Costituzionale non ha ammesso i due quesiti promossi dall’Associazione Luca Coscioni che avevano un peso politico e sociale maggiore, e che avevano suscitato un intenso dibattito: la depenalizzazione della cannabis e l’omicidio del consenziente; inoltre, con una terza sentenza sempre del 2 marzo, è stato ritenuto inammissibile anche il sesto quesito inerente l’ordinamento giudiziario, ossia quello riguardante la responsabilità civile diretta dei magistrati. Sembrerebbe dunque che, di fronte a questo vero e proprio ‘sfrondamento’ dei temi ritenuti più delicati e attuali, ci sia stata ben poca volontà di mobilitazione, fatto confermato anche dal dato secondo il quale oltre l’80% degli italiani era effettivamente a conoscenza dei referendum, ma che li abbia ignorati per scelta. Un altro dato interessante riguarda l’origine dei quesiti: mentre quelli sulla cannabis e sull’eutanasia avevano alla base un’ampia spinta ‘dal basso’ con una straordinaria raccolta di firme, quelli sulla giustizia erano fondati sulla proposta avanzata da nove consigli regionali, tutti a guida centrodestra: insomma, calati ‘dall’alto’.
La complessità delle domande (incentrate sull’incandidabilità dopo la condanna, sulla limitazione delle misure cautelari, sulla separazione delle funzioni dei magistrati, sui membri laici nei consigli giudiziari e sull’elezione dei componenti togati del CSM) avrebbe ulteriormente contribuito a scoraggiare i votanti. I sondaggisti sottolineano come molti elettori intervistati non avessero ben chiare le conseguenze dell’abrogazione delle norme previste dai quesiti, segnale che probabilmente si è voluto sottoporre a esame popolare questioni troppo specifiche o di portata troppo grande.
Infine, da più parti è stato sottolineato l’abuso dell’istituto del referendum, a cui fino a oggi si è fatto ricorso per 18 volte per un totale di 72 quesiti, con un declino graduale e costante dell’affluenza. Se fino alla metà degli anni Novanta le percentuali si attestavano intorno al 70%, successivamente la situazione è andata via via peggiorando, con il quorum che è stato raggiunto solo quando i temi erano chiari e ritenuti di grande importanza politica e sociale. Ha contribuito a questo trend negativo anche la tendenza a utilizzare in modo improprio lo strumento del referendum: nel nostro ordinamento è previsto solo quello abrogativo e non quello propositivo, ma in alcune occasioni, proponendo la cancellazione in ordine sparso di parole e brevi frasi, l’intento reale era proprio quello di mutare una norma, cambiarne cioè il senso, e non di cancellarla, abrogarla.
Dal punto di vista politico, nessuno sembra volersi prendere la responsabilità di questo fallimento che, oltre ad avere un costo economico, contribuisce all’usura appena ricordata dello strumento referendario, con l’effetto di allontanare ancora di più dalle urne un elettorato già disaffezionato e disilluso. Salvini ha attribuito la debacle al fatto che la consultazione si sia tenuta su una sola giornata in un weekend estivo e al silenzio dei media e della politica; una ‘foglia di fico’, visto che lui per primo ha evitato qualsiasi reale sforzo per portare gli elettori ai seggi. Per quanto riguarda i media, è abbasta ovvio come il loro lavoro rifletta le priorità delle persone, dei politici e in generale del paese; in mancanza di un interesse diffuso e rilevante, e in considerazione del fatto che i promotori stessi dei referendum se ne sono disinteressanti, è altrettanto scontato che la copertura non potesse essere delle più capillari.