L’assenza della Cina, che in valori assoluti emette da sola più CO2 di Usa, India, Russia e Giappone messi insieme, rischia di pesare in modo determinante sui risultati della conferenza sul clima.
Il 31 ottobre si terrà a Glasgow la Cop26 (ossia la ventiseiesima Conferenza delle Parti, rappresentata dalle 197 nazioni appartenenti alla ‘Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici’) che John Kerry, inviato per il clima di Washington, ha definito “la sfida del secolo”. Gli obiettivi dichiarati sono azzerare le emissioni nette a livello globale per limitare l’aumento delle temperature a 1.5 °C e salvaguardare gli habitat naturali e le relative comunità. Un piano ambizioso (oltre che necessario) che rischia tuttavia di scontrarsi con un problema non da poco: l’assenza della Cina. A meno di colpi di scena dell’ultimo minuto, infatti, il leader Xi Jinping ha dichiarato che non prenderà parte al summit.
Fare i conti senza l’oste: in questo caso non è un modo di dire, dal momento che, in valori assoluti, la Cina inquina da sola più di Usa, India, Russia e Giappone messi insieme. Uno studio del Crea – Centre for Research on Energy and Clean Air, un gruppo di ricerca ambientale finlandese, ha raccolto i dati sulle emissioni di alcune aziende di Stato cinesi. E sono venuti fuori numeri incredibili. Ad esempio, le cinque maggiori società di produzione elettrica sono responsabili di quasi un miliardo di tonnellate di CO2, più del doppio di quante ne generi l’intera Russia. Queste cinque aziende si sono impegnate a ridurre le emissioni a partire dal 2025, ma non è chiaro come ci riusciranno dato che hanno appena aumentato la produzione di carbone in vista dell’inverno.
L’industria siderurgica ha fatto registrare un trend simile: la produzione di acciaio, che richiede l’utilizzo di più di un quinto del carbone, è salita ai massimi storici nel primo semestre del 2021, a fronte di una serie di dichiarazioni e impegni per la riduzione delle emissioni da parte delle acciaierie. Sono in campo vari progetti per l’utilizzo di nuove tecnologie meno inquinanti, come l’idrogeno prodotto da fonti rinnovabili, ma sono progetti ancora ben lontani dall’essere realizzati. Nel frattempo si continua a bruciare carbone.
La storia si ripete per il settore petrolchimico, che da solo eguaglia le emissioni complessive di Canada, Spagna, Corea del Sud e Vietnam, e per altri settori come l’edilizia, i trasporti (solo il 5% dei veicoli è elettrico, il restante è a benzina: infatti più della metà del petrolio in Cina è utilizzato per il rifornimento delle macchine), l’agricoltura e l’allevamento. In particolare quest’ultimo settore ha visto un incremento esponenziale delle emissioni, stimolato da una maggiore disponibilità economica media della popolazione che ha consentito l’aumento del consumo di carne. Gli allevamenti sono tra i principali responsabili dell’inquinamento (il metano prodotto dai bovini e dai suini ha una capacità di “intrappolare” calore 80 volte maggiore rispetto alla CO2) e il fatto che la Cina possieda un numero di capi di bestiame due terzi più alto della media degli altri paesi dà la misura del problema.
D’altra parte Pechino è leader nello sviluppo di nuove tecnologie per le auto elettriche e per le batterie e sta sviluppando un progetto per ricavare almeno 100 gigawatt da impianti fotovoltaici da installare in un’area desertica. A fronte di questa capacità di innovazione, tuttavia, rimane il fatto che il fabbisogno energetico del paese è ancora in larghissima parte dipendente dai combustibili di origine fossile. La crisi che sta colpendo le economie di tutto il mondo ha visto l’aumento, da parte del dragone asiatico, dell’estrazione di carbone per 100 miliardi di tonnellate all’anno per il prossimo quinquennio.
L’obiettivo di ridurre il consumo di fonti fossili (scendere sotto la soglia del 20% entro il 2060) è stato giudicato non solo poco ambizioso, ma anche di difficile realizzazione. L’industria cinese è praticamente ancorata al carbone, al petrolio e al gas, e una riconversione massiccia degli impianti e dei veicoli richiederebbe uno sforzo tale da mettere a rischio la crescita del paese. Pechino ha dichiarato di volere una “transizione ordinata” che non provochi rallentamenti all’economia e disordini sociali.
La “sfida del secolo” sembra passare dunque per uno snodo obbligato: riportare la Cina al tavolo delle trattative. Occorre creare le condizioni politiche di dialogo con il gigante asiatico: soltanto in questo modo si potrà cercare un accordo per un piano realistico di riduzione delle emissioni che tenga conto delle esigenze di crescita manifestate dalla Cina (e non solo, da tutte le nazioni in via di sviluppo). Trovare insomma quelle soluzioni che favoriscano il progresso e la modernizzazione, ma senza che sia l’ambiente a farne le spese.
Senza dimenticare che anche l’Occidente deve fare la sua parte. Infatti, i dati riportati si riferiscono ai valori assoluti: considerando le emissioni pro-capite, ad esempio, vediamo che un cittadino statunitense “pesa” circa il doppio di un cittadino cinese (dati MyDataJungle.com). Occorre dunque un ripensamento profondo del nostro stile di vita, oltre che una riconversione della produzione e del consumo in una direzione di minor impatto ambientale e maggiore sostenibilità.
Diversamente, qualsiasi accordo per la riduzione dei gas serra da parte dei paesi che prenderanno parte alla Cop26 potrà sicuramente costituire un’iniziativa importante nella lotta al cambiamento climatico, ma non avrà quelle caratteristiche di immediatezza ed efficacia necessarie per salvare l’ambiente. Ricordiamolo sempre: siamo noi a dipendere dal nostro habitat, non il contrario.