Grande è la confusione sotto il cielo

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Grande è la confusione sotto il cielo di Massimo D'Alema
Grande è la confusione sotto il cielo di Massimo D'Alema

L’ultimo libro di Massimo D’Alema, “Grande è la confusione sotto il cielo” (Donzelli Editore, 2020), è composto da una raccolta di lezioni tenute all’Università Link Campus di Roma tra marzo e maggio del 2019, e da un’introduzione scritta successivamente, dal titolo emblematico: “La bufera del coronavirus”.

di William Lucio Chioccini

A fare da filo conduttore del libro è l’analisi della crescente instabilità dell’ordine mondiale, resa ancora più acuta dalla pandemia di Covid-19. Quando l’emergenza sanitaria si è dispiegata in tutta la sua gravità, impattando così violentemente anche nei paesi più sviluppati, l’intera società umana si è scoperta fragile. Nell’ansiosa attesa di un vaccino che ormai ha assunto un’aura quasi miracolosa (lo sarà davvero?), le economie avanzate stanno pagando un prezzo altissimo, rivelando una vulnerabilità inaspettata. Perché non abbiamo saputo reggere l’urto e reagire con prontezza ed efficacia? Impossibile capirlo, sostiene D’Alema, a meno di non considerare i cambiamenti profondi avvenuti negli ultimi trent’anni, caratterizzati essenzialmente da due fattori: la globalizzazione e l’egemonia del modello neoliberista di sviluppo.

Nonostante numerose narrazioni tentino di presentare le cose sotto un’altra luce, è una realtà di fatto che, nel corso degli anni, i sistemi sanitari e sociali siano stati pesantemente indeboliti dalla politica neoliberista. Senza quelle “reti di sicurezza” garantite dalla sfera pubblica, si sono allargate le disuguaglianze e sono aumentate le aree di emarginazione. In questo contesto, la società non può più contare su reti comunitarie ed è ormai preda di un processo, forse irreversibile, di atomizzazione. L’impoverimento economico, culturale e sociale di larghe fasce della popolazione ha contribuito all’affermazione dei populismi e dei sovranismi, fenomeno che ha portato a un ulteriore indebolimento delle istituzioni e della politica (le prime percepite come corrotte e parassitarie, la seconda diventata sinonimo di disonestà).

Per quanto riguarda la nostra grande casa europea, l’impostazione ordo-liberista di matrice tedesca, che vorrebbe “uno Stato sotto sorveglianza del mercato, anziché un mercato sotto sorveglianza dello Stato” (M. Foucault), mostra ogni giorno i propri limiti e la propria insostenibilità. Abbiamo quindi bisogno sia di un cambio di mentalità (integrazione, cooperazione e sostenibilità sono le nuove parole d’ordine per sconfiggere le disuguaglianze, la povertà e le conseguenze del cambiamento climatico), sia di una modifica radicale dell’azione svolta dall’Unione Europea (coordinamento delle politiche fiscali per evitare la concorrenza a colpi di detassazione e creazione di “paradisi fiscali”, vincoli per quanto riguarda i diritti umani e sociali, valorizzazione del Parlamento Europeo).

A livello globale, sono numerosi i nodi irrisolti. I media si concentrano – giustamente, per carità – sulla pandemia di Covid-19 e su temi di grande attualità come le recenti elezioni presidenziali negli Stati Uniti, ma restano senza soluzione, solo per citarne alcuni, i conflitti in Libia, Siria, Yemen, Ucraina, Crimea e di recente in Bielorussia con la controversa elezione di Lukashenko. E poi la guerra dei dazi tra Usa e Cina, l’Accordo di Parigi per il clima rimesso in discussione, il fenomeno dei flussi migratori ancora privo di una risposta convincente, la Brexit che si concretizzerà tra non molte settimane: in poche parole, come recita il titolo del libro, “grande è la confusione sotto il cielo”.

In questo scenario composto da molte sfaccettature, D’Alema sottolinea l’impotenza delle istituzioni internazionali. Come è successo a livello dei singoli Stati, anche gli organismi mondiali quali l’Onu, l’Oms, l’Omc (Organizzazione mondiale per il commercio) sembrano essere stati fatalmente indeboliti e aver perso l’antica autorevolezza ed efficacia nella risoluzione dei conflitti e delle controversie tra le nazioni. La conseguenza più evidente e dolorosa di questo indebolimento è sotto gli occhi di tutti: la mancanza di cooperazione e coordinamento tra i paesi ha reso estremamente più grave l’impatto del Covid-19.

L’egemonia liberista e il primato dell’economia e della finanza sulla politica entrano in crisi per la loro incapacità di dare una risposta ai problemi concreti della popolazione: in primis la pandemia, ma anche le disuguaglianze, la povertà, la limitazione o l’assenza dei diritti umani. Il capitalismo globalizzato e “finanziarizzato” è un prodotto del mondo occidentale e oggi è più evidente che mai la crisi di quella parte di mondo – l’Occidente, appunto – che per secoli ha influenzato direttamente o indirettamente, con la forza militare o con strumenti economici, il resto del globo.

Il modello occidentale sembra aver fallito perché non ha prodotto benessere (se non per pochi), non ha risolto i problemi delle fasce più vulnerabili delle comunità, non ha mitigato il malessere sociale che è andato crescendo di crisi in crisi. La trasformazione della società, unita all’uso molte volte distorto dei nuovi media, ha prodotto l’erosione di quei corpi intermedi – partiti, sindacati, associazioni – che costituiscono l’ossatura dei sistemi democratici. Le democrazie appaiono perciò deboli in un contesto di feroce competizione globale, e forme più autoritarie di governo (che per molti si incarnano nel cosiddetto “uomo forte”) sembrano garantire una maggiore stabilità ed efficacia nell’azione di governo.

L’Occidente è dunque condannato? No, a patto di riformare il proprio modello politico-economico e di prendere atto che sul piano internazionale non è più possibile pretendere di avere un ruolo dominante, ma essere disponibili a misurarsi con gli altri soggetti in campo su un piano di parità. Attenzione, questo non significa rinunciare alla propria tradizione e al proprio patrimonio culturale, anzi: è proprio su questo punto – la difesa e la promozione dei diritti umani, della libertà d’opinione, della tutela dell’ambiente, eccetera – che l’Occidente può svolgere un ruolo di “civilizzatore” nei confronti di quelle realtà non pienamente democratiche.

È fondamentale, sottolinea D’Alema, che l’azione dell’Occidente non venga vissuta dagli interlocutori come una minaccia alla loro identità culturale, e del resto ogni tentativo di introduzione di modelli democratici in paesi con una diversa tradizione e mentalità è puntualmente fallito. Sono numerosi gli esempi di nazioni, specialmente in Medio Oriente e in Nord Africa, nelle quali l’Occidente, e in particolare gli Stati Uniti, ha provato a “esportare” la democrazia (più uno slogan vuoto che un progetto razionale e concreto) ottenendo solamente la destabilizzazione delle nazioni in questione: abbattuto il vecchio regime, non è stato possibile crearne uno nuovo su basi democratiche (troppo brusco il cambiamento, troppo diverse le culture coinvolte), col risultato di gettare ancor di più nel caos il paese e l’intera regione.

Sarebbe irrealistico pretendere di trovare soluzioni rapide e definitive a problemi che si trascinano da decenni (ad esempio la questione israelo-palestinese), ma sicuramente una cosa l’Europa può farla: proporre nuovi tavoli di trattativa e ricominciare a tessere una nuova trama che abbia come obiettivo la firma di accordi di pace durevoli e sostenibili, nel rispetto dei diversi interessi in campo. Naturalmente, questa azione può essere svolta solo da un’Europa effettivamente unita, senza che i singoli paesi membri, guardando ai propri vantaggi, facciano lo sgambetto ad altri paesi membri loro rivali (si pensi alla questione delle risorse energetiche che vedono da una parte la Libia e altri paesi del Nord Africa e dall’altra paesi come l’Italia e la Francia).

Un capitolo a parte è dedicato all’ex Unione Sovietica. La parabola di questo grande paese è significativa. Alla caduta del sistema comunista, è subentrato in Russia un capitalismo selvaggio, caratterizzato da corruzione e criminalità. Il potere e la ricchezza si sono concentrati nelle mani di pochi, i cosiddetti oligarchi, mentre la grandissima maggioranza della popolazione precipitava in un drammatico disagio sociale tra insicurezza, instabilità e violenza. È da questa crisi che emerge la figura di Vladimir Putin. Il presidente russo garantisce una guida ferrea, il ritorno all’ordine e allo sviluppo economico, e una politica estera aggressiva, che imponga di nuovo la Russia come grande potenza sul piano internazionale, ristabilendo il prestigio perduto dopo la fine del comunismo. Il prezzo da pagare è alto: limitazioni della libertà di stampa e dei diritti umani, l’assoluta mancanza di qualsiasi tutela dell’ambiente, durissime sanzioni della comunità internazionale. Anche nei confronti della Russia, l’Europa può e deve intervenire, ma sempre con le armi del dialogo e della diplomazia, e a patto di superare le proprie divisioni interne.

La traiettoria della Cina è in qualche modo simile a quella russa, ma con caratteristiche ben differenti che riflettono due culture profondamente diverse. Svanita l’utopia comunista, la Cina ha sperimentato un’accelerazione economica e uno sviluppo industriale impressionanti che l’hanno portata a essere “la fabbrica del mondo”. Le conseguenze hanno avuto un impatto a volte drammatico: salari bassissimi, intensi processi di urbanizzazione non regolati, inquinamento e contaminazione dell’ambiente, corruzione diffusa in molti apparati dello Stato. Recentemente, la Cina sembra aver imboccato una strada diversa. Sul fronte interno c’è una maggiore attenzione nei confronti delle rivendicazioni degli operai e dei lavoratori meno qualificati; sono stati fatti molti investimenti nella lotta al degrado ambientale, nella creazione di infrastrutture per collegare l’intero paese e attenuare le disuguaglianze tra le aree maggiormente sviluppate e quelle più arretrate; è stato spinto l’acceleratore sulle innovazioni tecnologiche per entrare in competizione diretta con l’attuale leader del settore, gli Stati Uniti. Sul fronte esterno, la Cina dimostra di avere mire ambiziose: basti vedere gli accordi economici e di scambio realizzati con gli altri paesi asiatici e con un gran numero di paesi africani.

A proposito di Africa, questo grande continente si trova esposto a diversi pericoli, anche in questo caso provocati dalla concezione capitalista e neoliberista di sviluppo. Molti studi dimostrano come il cambiamento climatico è all’origine sia di disastrosi fenomeni naturali quali alluvioni, sia di un processo sempre più intenso di desertificazione: questi due fattori colpiscono vaste aree del continente, contribuendo a ingrossare quei flussi migratori già estremamente rilevanti. A ciò si accompagna l’esportazione in Africa dei modelli industriali occidentali, dannosi per le agricolture e le metodologie di produzione locali, nella maggioranza dei casi di piccola entità e generalmente arretrate. Si è molto diffuso il cosiddetto “land grabbing”, ossia la pratica di acquisto di sterminati appezzamenti di terra da parte di multinazionali che hanno imposto monoculture orientate all’esportazione; queste “appropriazioni” causano periodicamente gravi crisi alimentari che spingono molte persone a lasciare il proprio luogo d’origine.

Per molto tempo, le materie prime africane sono state sotto il diretto controllo dei paesi occidentali. Finita l’epoca coloniale, le nazioni industrializzate hanno continuato a mantenere questo controllo tramite modalità di scambio non eque, nelle quali il prezzo delle materie prime veniva in pratica deciso dai compratori. Questa situazione di sostanziale sfruttamento poteva avere una svolta agli inizi degli anni Ottanta con la pubblicazione del “Rapporto Brandt”, su impulso della Banca mondiale e di una parte dell’élite democratica americana. Le politiche neoliberiste thatcheriane e reaganiane hanno però posto fine molto presto all’illusione che si potesse avviare una stagione di riforme negli scambi: attraverso la pratica dei cosiddetti “aiuti condizionati”, moltissimi paesi africani sono stati costretti ad aprirsi ai mercati internazionali e a consentire la privatizzazione delle risorse naturali in cambio degli aiuti umanitari di cui avevano urgente bisogno.

L’Africa continua oggi a essere in gran parte dipendente dai capitali stranieri. Sebbene molti paesi siano assai più sviluppati relativamente a trenta o quaranta anni fa, rimangono alcune criticità rispetto alle quali i paesi industrializzati occidentali hanno fatto ben poco per trovare una soluzione. Lo sfruttamento delle materie prime rimane presente, anche se meno visibile. Classi dirigenti autoritarie e corrotte favoriscono gli interessi delle multinazionali a scapito del benessere dei propri cittadini. Inoltre, la penetrazione cinese in Africa ha dato in alcuni casi il via a nuovi pericoli di neocolonialismo, tramite il finanziamento di infrastrutture legate alla realizzazione della cosiddetta “Nuova via della seta”. Queste opere sicuramente rappresentano un volano per lo sviluppo, ma al tempo stesso generano un debito che, se non ripagato, vedrebbe l’infrastruttura in questione passare sotto il controllo di società cinesi. E non tutti gli Stati coinvolti sono in grado di adempiere a tali impegni economici.

La comunità internazionale dovrebbe limitare l’azione delle multinazionali, interessate unicamente allo sfruttamento delle risorse di cui l’Africa è ricca, e sostenere lo sviluppo economico dei paesi africani a partire dagli agricoltori, dagli artigiani e dalle PMI al fine di creare un tessuto sociale produttivo che non sia preda della povertà e delle cicliche crisi alimentari. Inoltre dovrebbe incoraggiare la cooperazione e l’integrazione tra le varie nazioni, trasferendo laddove necessario non solo aiuti materiali, ma anche il know-how per permettere alle realtà locali di crescere in autonomia, senza dipendere dall’esterno. A ciò si dovrebbe accompagnare un rinnovamento della classe dirigente locale e una maggiore diffusione dei sistemi democratici per dare al popolo la facoltà di scegliere i propri rappresentanti.

Realizzare questi impegni appare quasi utopistico, ma in realtà, quando si dice in relazione all’immigrazione “aiutiamoli a casa loro”, è di questo che si parla. I grandi flussi migratori dipendono in larga parte da guerre, carestie, situazioni endemiche di povertà e miseria, dalla mancanza di lavoro e di qualsivoglia prospettiva economica e sociale. L’assenza di cooperazione tra i paesi di partenza e quelli di arrivo lascia campo libero alla criminalità organizzata, causando una tragica perdita di vite umane e alimentando la clandestinità e la delinquenza.

Eppure, in un quadro che appare sconfortante, alcuni paesi come il Ghana e il Kenya si sono organizzati in modo tale da limitare le partenze facendo leva su sistemi di produzione agricola più moderni, sull’istruzione e sulla tutela della salute delle persone, dimostrando che un’azione basata su tali capisaldi e non sullo sfruttamento delle risorse e la corruzione è efficace a contrastare l’immigrazione incontrollata e chi la sfrutta.

L’ultimo capitolo del libro è dedicato al futuro. L’attuale modello, basato sul neoliberismo e su un’economia puramente di mercato, ulteriormente messo a nudo dalla pandemia di Covid-19, sta dimostrando tutti i suoi limiti. La globalizzazione ha creato un’enorme ricchezza, ma solo per pochi; per una grande fetta della società, essa è sinonimo di squilibrio. Le disuguaglianze hanno come effetto un crescente conflitto sociale e maggiore instabilità, condizioni che hanno aperto la strada a sovranismi e populismi di ogni genere.

Le istituzioni internazionali, esattamente come a livello dei singoli Stati, ne sono uscite indebolite, e ciò è assai più grave considerando che le sfide attuali – l’emergenza sanitaria, l’impegno per la pace, la lotta al cambiamento climatico, la gestione dei grandi flussi migratori – sono sfide che non possono essere affrontate se non in modo collettivo. Parliamo infatti di problemi così grandi da oltrepassare non solo i confini delle nazioni, ma dei continenti.

L’auspicio è che un Occidente a doppio traino Europa/Stati Uniti ristabilisca il primato della politica democratica per limitare e correggere le storture del capitalismo neoliberista e ritrovare la strada per una maggiore solidarietà sociale e per una più attenta salvaguardia dell’ambiente. Di pari passo con questo processo di rinnovamento interno, occorre riaprire il dialogo con gli altri partner internazionali, come Russia e Cina, per superare gli atteggiamenti di contrapposizione e ritornare a una collaborazione basata sul reciproco rispetto. Oggi più che mai abbiamo bisogno di un’Europa unita, sia al proprio interno, sia in politica estera.